Essere turisti vuol dire anche cogliere l’anima enogastronomica di Ischia. Che qui più che altrove rivela mille storie. Tutte affascinanti
Sono custodite nelle grotte di tufo o tre le antiche botti, tra i filari che percorrono colline rigogliose o – ancora - nelle cucine che affacciano sulla strada, nel borgo di Ischia Ponte. Le mille storie dell’isola d’Ischia hanno un Leitmotiv che non può lasciare indifferente il turista: l’enogastronomia. Perché se non v’è territorio che non sappia rivelarsi attraverso i riti e i miti che orbitano intorno al cibo, alle sue leggende, alle ricette, alle tradizioni. Ischia è un’isola dalle due anime, entrambe affascinanti: prevarrebbe quella terragna, nobilitata dall’alimento principe della sua tavola, il coniglio all’ischitana, ma certo non è trascurabile - oggi - il fascino del pesce, evocato dal festoso arrivo delle paranze e tradotto in piatti di irresistibile richiamo dai ristoranti più accorsati della Rive Droite.
Cibo è storia, identità, passione. Non è un caso che qui i coloni greci abbiano individuato le condizioni ideali per dedicarsi al dio Bacco, attraverso la coltivazione della vite e la produzione del vino. Presenze millenarie che si traducono anche in testimonianze come la Coppa di Nestore, custodita al Museo di Pithecusae.
Il vino racconta meglio di qualsiasi altra cosa il territorio, lo celebrano un evento (“Andar per cantine”, in programma a settembre) e una serie innumerevoli di piccoli mondi scavati nel tufo: i contadini custodiscono cantine che sono scrigni di bellezza, templi dedicati al dio Bacco che rivelano il legame ancestrale dell’isola col vino. Un legame che si traduce oggi nella presenza di case vinicole affermate che esportano Oltreoceano gli ottimi vini bianchi e che hanno da poco celebrato, peraltro, i cinquant’anni della prima Doc. Storia e storie, come quelle della cosiddetta agricoltura eroica: una morfologia incerta e nervosa, con il susseguirsi di colline che digradano tutt’a un tratto verso il mare, ha costretto i contadini a far di necessità virtù. Industriandosi per ingentilire il territorio, con le parracine per esempio: uno scheletro di pietra non invasivo che ha saputo trasformare l’isola in un alternarsi di boschi e paesaggi terrazzati, orti e sentieri. Il cibo non è che la naturale traduzione, in tavola, di una cultura ultrasecolare.
Assaggiare i pomodorini del piennolo, ideali per le celebri bruschette; lasciarsi conquistare dai sapori forti dei salumi isolani, compreso il salame di coniglio (una chicca per intenditori); apprezzare le marmellate di prugne e fichi, gelsi e amarene. E con Slow Food si può cercare l’anima del fagiolo zampognaro, una tipicità dell’isola che si esprime soprattutto sulla collina di Campagnano.
A Ischia il legame tra territorio e cibo è inscindibile. Ha scritto l’antropologo Marino Niola, dell’isola: “Un fantasmagorico traforo di tane, tunnel, buche, fosse, palmenti, nicchie, antri, caverne, grotte, cave, cavità, covi, ricoveri, ombre, canali, vasche, pozzi, lune, crateri, soffioni, conche, anfratti, fratte, forre, calanchi, vene, falde, polle. E case di tufo incastonate nella roccia”.
Ecco, il passaggio è quasi obbligato. Perché c’è sua maestà, il coniglio. Icona intramontabile, è dal ‘500 che costituisce una pietanza prelibata e simbolica. Si fa presto, poi, a dire coniglio all’ischitana. Un trionfo di erbe e spezie, aromi del territorio ne impreziosisce il gusto, con il vino bianco nel quale farlo rosolare: è anche per questo che il coniglio sintetizza l’isola, nel suo saporito letto soffritto. Presidio Slow Food, il coniglio da fossa. Una tecnica di allevamento da tutelare, difendere, raccontare. Grosse buche, profonde fino a tre metri e oltre, dove i conigli crescono e proliferano, costruendo labirinti di cunicoli e nutrendosi di erba fresca e paglia, servita dagli allevatori. Più di mille fosse, a quanto pare. Un presidio che è identità. Fortissima. La filiera racconta un pezzo dell’isola: non accontentatevi del bucatino, comprendetene la filosofia.
E’ una delle storie più belle dell’isola enogastronomica. Poi, c’è quella delle fumarole. Perché ai Maronti e a Sorgeto il cuoco si chiama Tifeo: il gigante costretto da Zeus, per la sua tracotanza, a sorreggere il peso dell’intera isola. Sbuffa e si lamenta, ecco spiegata l’effervescenza del sottosuolo dell’isola. Che però può consentire di cuocere polli e uova, avvolti in carta argentata sotto la sabbia dei Maronti. Tradizioni uniche, anche gli chef stellati – come Pasquale Palamaro – hanno decido di ispirarvisi. Sono le mille storie dell’isola d’Ischia. Roba da leccarsi i baffi.Pasquale Raicaldo
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